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venerdì 19 ottobre 2012

RECENSIONE: David Byrne & St. Vincent - LOVE THIS GIANT


4AD - Todo Mundo (2012)

Art Rock - World

“I celebrate myself,
And what I assume you shall assume,
For every atom belonging to me as good belongs to you”  



Con questi versi comincia Song of Myself, il poema di Walt Whitman al quale quest’album, ed una canzone in particolare (“I should watch TV”), dichiaratamente si ispirano. Come This Must Be the Place per l’omonimo film di Paolo Sorrentino, così quest’album, e I Should Watch TV in particolare, sarebbero stati la perfetta colonna sonora di Reality di Matteo Garrone, guarda caso i due registi che tutti, almeno una volta nella vita, hanno confuso. Reality e Love this Giant (dove il gigante è la televisione) sono animati dallo stesso proposito. Raccontare, denigrandoli cinicamente, gli aspetti più effimeri e relativisti dell’odierna società del niente. L’annullamento della propria banale individualità nella costante ed oppressiva mania di cercare altrove, in TV o per strada, quello che non siamo ma che vogliamo a tutti i costi fare nostro. L’alienazione nell’ansia di essere tutti. Uno, nessuno e centomila, avrebbe risposto la letteratura nostrana. Byrne e Annie Clark sono avanti, o forse sopra, ma per non restare da soli guardano indietro, o sotto,  per provare a capire e conoscere meglio gli abitanti del pianeta nel quale vivono, loro malgrado. La TV è lo strumento eletto per questo fine misericordioso (“I used to think that I should watch TV […] to understand the land I live in”).  


David Byrne, come anticipato, ha scelto come principale compagno di viaggio per questa sua nuova avventura una splendida Annie Clark, aka St.​Vincent, che con l’odierno gigante dà, a parer mio, la sua prova più credibile in carriera. E non è solo luce riflessa. Ad accompagnare i due, una pletora di musicisti (circa 50) della migliore scena brass statunitense.  
Love this Giant è, almeno nella prima parte, un concentrato multivitaminico di freschezza genuina, energia funambola ed animo gitano. Tutte cose che non ti aspetteresti da un vecchietto di sessant’anni appena compiuti, protagonista indiscusso del post-punk, del quale ogni tentativo di ridiscesa in campo va scrupolosamente valutato e passato al setaccio per filtrare eventuali bolliti pagamutuo o goffi tentativi di rimanere nella scena che conta. E invece no, David Byrne è ancora straordinariamente in forma e per gran parte del disco non lascia intravedere nessun secondo fine diverso da un sano e sincero amore per la musica. Una creatività pazza e gaudente di chi sempre sa stupire ed emozionare, semplicemente perché è un essere geniale.  
Gli strumenti che più capita di ascoltare e ricordare in quest’album sono gli ottoni tipici di una brass band (sassofono, corno, tuba e trombone), neanche fossimo in un disco di Goran Bregovic o della Fanfare Ciocărlia. La stessa overture di Who, primo straordinario singolo dell’album, è fatta con le note di un sassofono baritono bofonchiante. Una botta al cuore, di quelle che si provano ascoltando Speaking in Tongues


Gli elementi brass/balcanici, addolciti dalle voci mirabilmente melodiche e morbide di Byrne e St Vincent, su ritmi techo/hip pop/funky/fusion/R&B a seconda del caso, più altri vari inserti  di world music (come si fa a non dire che siamo nell’ art rock, ma non ditelo a Byrne) e la consueta chitarra acustica ritmata e tagliente sono il minimo comune denominatore dell’album.   Weekend in the dust ed il suo funky in salsa balcanica, Dinner for two con il suo animo epico che deborda nell’etno dance, Ice Age ed il suo incedere incalzante accompagnato dalla soave voce di Annie, due piccoli gioielli quali I am an ape e The forest Awakes (quest’ultima dalle parti di una Bjork in ottima forma), che non sfigurerebbero in un Guca festival, conducono alla suddetta I should watch TV, canzone anima del disco e speriamo prossimo singolo  tanto è incredibilmente bella e gustosa nell’ascolto. 



Poi però l’incantesimo si rompe, e da Lazarus, che comunque rimane discretamente sopra la sufficienza, anche per un certo sapore glo-fi che manda la mia mente “classificatoria” letteralmente in corto circuito, si assiste ad un clamoroso calo di prestazione. Optimist è bella quanto banale, una vetrina per le doti canore di St.​Vincent ma poco altro. Lightining e The one who broke your heart, assolutamente dimenticabili. Il lento di chiusura, Outside of space and time, rialza un pò la media, anche se eccessivamente lenta, triste e nostalgica. Sembra un pesce fuor d’acqua in un album di David Byrne
Il mio giudizio non può quindi che essere una media ponderata tra la strabiliante prima parte e la pressoché terribile seconda. Un album nel complesso di buona fattura, degno di essere ascoltato e perché no, acquistato, ma che non nasconde pecche, come ancora l’ingombrante presenza degli ottoni, che vanno bene se si vuole stupire una volta, va bene la seconda e la terza, ma inseriti in tutti i brani e in tutte le salse, è apparsa essere una sbrigativa forzatura, stucchevole in alcuni punti.
Non siamo certo ai livelli aurei ai quali Byrne ci ha più volte abituati in passato, ma ce ne fossero di sessantenni così! Immortale.

Pubblicata su Storia della Musica.

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